In Evidenza, Storie di Sicilia
Giuseppe Garibaldi e la presa della Sicilia. 1860
Un regno dell’Italia del nord era ormai virtualmente in atto con Piemonte, Sardegna, Liguria, Lombardia, Toscana, ducati centrali e una piccola parte degli Stati pontifici. Le regioni più importanti ancora fuori dell’unione erano Napoli, la Sicilia, Roma e Venezia, senza le quali il regno non si poteva considerare nazione. Fu nel 1860 che la conquista garibaldina del sud cambiò l’intera scena e diede esistenza a uno Stato pan italiano, con carattere e destino più mediterranei. Dal punto di vista del risultato politico, fu la più grande impresa della sua vita. Pochissime persone, perfino in Italia, avevano considerato un simile sviluppo possibile e desiderabile: ma la sua determinazione individuale procurò un sorprendente trionfo sugli uomini e sulle circostanze.
All’inizio del 1860 egli era un patriota di professione, ossessionato dall’idea di unificare il Paese. Nel gennaio aveva asserito che, se il sud era pronto a insorgere, potevano contare sul suo aiuto, ma che voleva prima le prove di tale disposizione. Troppi patrioti prima di lui – soprattutto Bentivegna, Pisacane e i due Bandiera – erano periti per aver intrapresa la liberazione di Napoli e della Sicilia e aver trovato i meridionali indifferenti. Benché impetuoso nell’azione, Garibaldi era cauto prima di iniziarla e raramente cominciava qualcosa per conto suo. Se ora esitava non era per la democratica convinzione che si dovesse prima consultare l’opinione meridionale: aveva appena detto all’ambasciatore degli Stati Uniti Daniel che “talvolta la stessa libertà va forzata nei popoli per il loro bene futuro”; era piuttosto per prudente ritegno dal correre rischi non necessari.
Gli amici di Mazzini fecero del loro meglio per farglieli correre; fomentando intanto la rivoluzione in Sicilia per convincerlo che si poteva fare. Contrario a compromessi senza scampo, egli attese però altre quattro settimane per vedere se la rivolta si sviluppava con successo, mentre radunava uomini e materiali a Genova.
Sfortunatamente i fucili acquistati con il Fondo del milione furono sequestrati dal governo e Cavour rifiutò di autorizzarne il rilascio. Il colonnello Colt inviò un centinaio di quelle pistole che si erano dimostrate così efficaci nel Texas, alcune nuove armi da fuoco a canna rigata giunsero dalle Officine del Commissario britannico. Più importante fu il fatto che la fabbrica di armi Ansaldo sostenne nascostamente la spedizione di Garibaldi; ma questo imponeva quegli assalti alla baionetta di cui egli sapeva servirsi così bene.
Il denaro venne a spizzico da molte fonti, tra le quali Lady Byron e il Duca di Wellington; i giornali erano pieni di sottoscrittori italiani in patria e all’estero. Somme particolarmente alte vennero dalle città di Parma e Pavia. Ciononostante non era facile organizzare i contributi privati e con un pretesto o con l’altro si dovettero contrarre molti debiti che non poterono mai essere saldati.
Intanto i volontari si riunivano a Genova. Un osservatore notò che più della metà aveva meno di vent’anni. Molti erano studenti che speravano di evitare gli esami e contavano sulla riconoscenza della Patria per conseguire la laurea. Delle 1.089 persone che componevano i Mille sbarcati in Sicilia, 163 erano di Bergamo e 154 di Genova, mentre all’altro estremo c’erano 11 romani e solo 7 torinesi. Presente anche il giovane Menotti Garibaldi. C’erano profughi speranzosi di tornare in Sicilia, poeti in cerca di ispirazione, disoccupati senz’arte né parte, una certa quantità di ragazzi abbandonati e di teppisti; ma la maggior parte erano idealisti patrioti. Il più giovane aveva undici anni, il più vecchio aveva combattuto sotto Napoleone primo. Una dozzina di essi sarebbero diventati un giorno generali nell’esercito italiano, Crispi e Cairoli primi ministri. C’era anche una donna, l’amante di Crispi.
Fu la più grande avventura di Garibaldi; pure, fin dall’inizio riuscì quasi per caso. Anche fra i suoi amici politici molti tentarono di trattenerlo da un’impresa tanto pazzesca, e alla fine di aprile egli stava quasi per rientrare a Caprera. Cavour non solo evitò qualsiasi incoraggiamento, ma si servì del suo potere per cercare di fermarlo e tentò poi di far nominare un altro capo, di cui si potesse maggiormente fidare; avrebbe usato volentieri perfino la forza per arrestare i Mille, se si fosse sentito più forte e se Geribaldi non si fosse allora trovato all’apice della popolarità.
Alla fine le teste calde – Crispi e Bixio – prevalsero. Con rapida decisione il secondo s’impadronì di due vapori a pale da duecento tonnellate l’uno e venne a prendere Garibaldi a Quarto il 6 maggio. All’ultimo momento ci furono molti intoppi. Bixio aveva un ritardo di sei ore, mentre per tutta la notte gli altri si trattenevano penosamente al largo con mare mosso su piccole imbarcazioni. Non si trovavano le munizioni, poiché alcuni depositi erano stati saccheggiati durante l’imbarco. Ciò malgrado Garibaldi non esitò a ordinare che la spedizione proseguisse. Il tempo della prudenza era finito, ed egli non era il tipo da ripensarci ancora una volta.
Nessuno sapeva chi esattamente si fosse imbarcato. Garibaldi indossò l’uniforme di generale per passarli in rivista prima di rimettersi l’abituale costume, cioè camicia rossa, pantaloni grigi, poncho bianco, cappello di feltro nero e fazzoletto da collo di seta, come ai giorni del Sud America. Alcuni avevano uniformi militari o marittime, ma la maggior parte era in abito civile: una screziata assemblea nella quale non mancavano nemmeno la veste ecclesiastica e l’abito da società del cittadino. Non era facile fare di una simile accozzaglia una forza coerente e disciplinata. Sui ponti affollati si scelsero in fretta gli ufficiali, e gli aiutanti di Garibaldi improvvisarono un’organizzazione, mentre egli scriveva un canto di guerra e cercava di adattarlo a varie melodie verdiane. Il viaggio per la Sicilia subì due interruzioni – la prima per rubare del carbone e la seconda per persuadere il colonnello comandante di Talamone a rischiare la carriera, concedendo loro munizioni. Fin qui che, avendo Garibaldi fermamente deciso per il programma “Italia e Vittorio Emanuele”, i repubblicani più tenaci se ne andarono. Più tardi egli rimproverò a se stesso di non aver avuto il coraggio di dichiararsi apertamente repubblicano; ma nel Sessanta era assai più realistico di quanto molti supponessero ed egli stesso amasse poi ricordare: la decisione di sostenere il re era allora naturale e politicamente giusta. In quel momento né lui né la maggior parte dei suoi uomini davano molta importanza a questioni di politica interna, purchè si facesse l’Italia.
A Talamone spedì via sessanta volontari per una diversione che facesse credere a un’invasione degli Stati pontifici. Non fu una mossa abile ed ebbe scarsi effetti, fuorchè quello di far tentare in ritardo a Cavour di fermare la spedizione a qualsiasi costo. A Roma c’era una guarnigione francese, e Cavour non poteva permettersi di compromettere quell’alleanza con la Francia sulla quale fondava l’intera sua politica. Nemmeno Garibaldi seppe la destinazione precisa fino a quando i vapori furono al largo della Sicilia. Bisognava vedere se la rivoluzione era ancora in vita, e dove. Le due navi una volta persero contatto, e cercandosi l’una l’altra ebbero la fortuna di subire un ritardo che permise di evitare le navi da guerra napoletane intente a intercettarle. Al largo di Marsala le ciurme di due pescherecci furono catturate e usate dai piloti; in due ore tutti erano sbarcati, proprio mentre la flotta napoletana era giunta portata di tiro. I garibaldini s’impadronirono dell’ufficio telegrafico di Marsala e trasmisero falsi messaggi, mentre in municipio Garibaldi disse chiaro e tondo che chiunque non combatteva dalla sua parte era un traditore o un codardo.
Gli abitanti del luogo non sapevano bene se fosse un liberatore ovvero un altro degli innumerevoli invasori che avevano tormentato il loro sventurato paese. Si proclamava dittatore in nome Vittorio Emanuele, “re costituzionale d’Italia”; e coi suoi dittatoriali poteri requisiva coperte, cibo e tutto il contante che riusciva a trovare in ogni comune. Altrettanto impopolare e senza dubbio meno efficace fu il suo editto per la coscrizione di tutti i siciliani fra i diciassette e i cinquant’anni.
Ma mentre in alcuni villaggi la gente scappava al suo arrivo, in altri cominciava a unirsi a lui come pochi avevano fatto nel nord. Infatti egli aboliva le tasse sul sale e sulla pasta di dividere i latifondi e distribuire la terra. I membri siciliani della spedizione furono deliberatamente inviati a suscitare la rivolta dei cittadini nell’interno; presto agli occhi delle masse egli cominciò a essere una figura favolosa, di proporzioni eroiche. Alleati inattesi si trovarono nel clero povero, che costituiva anch’esso una classe oppressa e forniva propagandisti eccellenti fra la gente comune. Uno di essi, il francescano Fra Pantaleo, si unì ai Mille come cappellano.
Il re borbone di Napoli aveva ventimila soldati per difendere Palermo; tanto per cominciare, un’unità di tremila uomini fu inviata sotto il generale Landi a schiacciare quella meschina e non molto promettente invasione. Le due forze si incontrarono a Calatafimi, vicino al famoso tempio greco di Segesta. Landi occupava una forte posizione, ma Garibaldi era deciso a rischiare tutto in un colpo solo. Che i siciliani lo seguissero o no, dipendeva dalla rapidità con cui egli avrebbe provato di essere quel duce invincibile che si diceva. Fu una battaglia senza ordine né disciplina. I pochi cannoni che potevano sparare aprirono il fuoco contro l’espresso comando di Garibaldi, poi ci fu una carica disorganizzata che i suoi squilli di tromba non poterono fermare né dirigere. Su per l’erto pendio andarono essi con disperato ardore, prendendo l’una dopo l’altra sette distinte terrazze con la punta della baionetta. Fu una vittoria del coraggio nudo, in quanto la tattica ebbe poco a che fare nella battaglia e Garibaldi scarso controllo sugli eventi. Ma non sembra gli sia mai capitato di poter perdere; era la prova che quell’irragionevole e fortuita bravura dava risultati pratici. “Qui si fa l’Italia o si muore”, raccontano abbia detto. In ogni caso il risultato fu conclusivo: primo perché aperse la strada verso Palermo e secondo perché convinse gli irregolari siciliani, spettatori da una collina adiacente, che Garibaldi era uno che vinceva.
Fu allora emessa un’esortazione generale: ognuno prendesse una falce, una scure, perfino un chiodo su un bastone, e uccidesse le sentinelle borboniche, tagliando le comunicazioni e tormentando incessantemente il nemico. Non c’è dubbio che la cosa fu fatta, in innumerevoli modi non appariscenti, di cui spesso non si ha notizia; e fu cosa decisiva per la vittoria. I fuochi su tutte le colline spargevano intanto la notizia dell’insurrezione. Per impressionare l’uditorio, lo scettico Garibaldi attese alla messa e ricevette l’insegna di crociato all’altare. Serviva a guadagnare la confidenza locale, e comunque egli era un tipo troppo mistico per non trovare qualche significato nella cerimonia.
Per tre giorni i suoi uomini dovettero vivere all’aperto sotto la pioggia torrenziale. Vestiti di cose requisite, sembravano un reggimento di frati, giacchè le cose religiose erano la miglior fonte di materiale, anche se non sempre la più disposta. Marciavano tutta la notte per difficili sentieri montani, nascondendo così i loro movimenti e tenendo il nemico sempre sotto sorpresa. Una volta, per inganno tattico, ebbero l’ordine di ritirarsi di corsa; ma fu quasi un disastro per il morale degli irregolari siciliani. La sola speranza era di andare avanti a prendere in qualche modo Palermo, mostrando così che nulla poteva fermarli. Il destino dell’intera spedizione pendeva dal filo di un altro miracolo.
Garibaldi disponeva di poco più di tremila irregolari miseramente armati con i quali attaccare una grossa città fortificata. Ma aveva prestigio, e il coraggio disperato di chi arrischia la vita per la cosa che valuta di più. In quei pochi giorni decisivi ebbe anche l’aiuto importantissimo della rivolta contadina, che terrorizzava la polizia e i soldati e obbligava il governo locale all’inazione. Dall’interno di Palermo, rappresentanti di un comitato rivoluzionario riuscirono a raggiungere il suo campo travestiti da ufficiali americani e gli diedero i piani della guarnigione. Tuttavia la coordinazione fu quasi impossibile. Si doveva improvvisare ogni cosa e i suoi uomini non erano tali da rispondere facilmente agli ordini e alla disciplina.
La fortuna giovò all’audacia. Con ingegnose diversioni e servendosi abilmente di finti fuochi d’accampamento sulle circostanti colline, prese i borbonici di sorpresa. Quando attaccò, molti di essi stavano inutilmente cercando altrove. I restanti non erano pronti e non erano stati addestrati a combattere per le strade, tanto che dopo alcune ore di confusione Garibaldi si trovò in possesso della maggior parte della città. I primi segni di successo avevano gradualmente indotto la popolazione a partecipare zelantemente, a costruire barricate, a tirar fuori l’antico rancore dei siciliani per i napoletani, dei poveri verso i ricchi, dei governati contro i governanti. Il generale Lanza fu così costretto a chiedere a “Sua Eccellenza il Generale Garibaldi” di trattare l’armistizio a bordo di una nave da guerra britannica. Garibaldi tenne duro su termini migliori di quelli che gli venivano offerti, e con assurda smargiassata li ottenne. La guarnigione borbonica capitolò in modo sorprendente, alla condizione di poter rientrare per mare a Napoli. L’incredibile era accaduto; una pazzesca incursione alla filibustiera veniva giustificata dal successo. Per sei settimane Garibaldi potè far l’inventario della sua buona fortuna e preparare la mossa successiva.
Il governo di Torino era ancor più stupito che felice per il fatto che egli aveva vinto all’Italia una nuova provincia senza provocare il temuto intervento diplomatico. Cavour inviò rapidamente un commissario ad annettere l’isola al Piemonte e provvide finalmente aiuti in denaro e munizioni. Il 10 giugno partirono sulla Franklin e sulla Washington rinforzi di trmila volontari agli ordini di Medici.
Però Garibaldi, quantunque lieto dei necessari rinforzi, intendeva tenere in pugno la sua rivoluzione il più a lungo possibile. Non senza ragione temeva che, se la Sicilia fosse stata soggetta a un commissario piemontese, il governo non gli avrebbe forse concesso di portarla avanti. Quanto a lui, aveva la ferma intenzione di proseguire, il più lontano e il più presto possibile, finchè durava la buona fortuna: probabilmente a Napoli, se possibile a Roma, forse perfino a Venezia. Sarebbe stata per la Francia un’aperta sfida, che Cavour avrebbe dovuto prevenire non appena completata l’annessione della Sicilia al Piemonte. Garibaldi pertanto, pur riaffermando piena lealtà verso il sovrano, decise di conservare l’autonomia fino a quando non avesse potuto proclamare Vittorio Emanuele re penisola unificata. Se i suoi sforzi fallivano, il governo di Torino avrebbe sempre potuto sconfessarlo.
Fu la prima e unica esperienza di governo di Garibaldi. Come dittatore di Palermo occupava un appartamento di tre stanze a Palazzo Reale. Era ormai per i siciliani un meraviglioso eroe, specie per la sua ovvia dedizione di uomo senza arie aristocratiche e senza settentrionale disdegno. Progetti di riforma del governo furono adombrati. Venne avviata una scuola diretta da un suo ufficiale, dove i monelli delle strade cittadine ricevevano rudimentali insegnamenti militari e di altre materia; egli stesso la visitava di frequente e teneva brevi lezioni di patriottismo e di condotta. Fece un volenteroso giro per i conventi locali – capitava che le monache, compresa la madre superiora, lo baciassero sentimentalmente a una a una, e ogni giorno gli mandavano in regalo canditi e ricami.
Malgrado le sue idee religiose, Garibaldi fu abbastanza realistico per celebrare la festa locale di Santa Rosalia, visitando in pellegrinaggio la grotta della santa. Al pontefice nel Duomo giunse al punto di sedere sul trono reale in camicia rossa, rivendicando il legato apostolico tradizionalmente tenuto dai governanti di Sicilia. Quel miscredente notorio se ne stette là come difensore della fede, con la spada nuda mentre veniva letto il vangelo. Non c’è da meravigliarsi che il popolino gli attribuisse i magici poteri di chi è in diretta comunione con Dio.
Il successo aveva moltiplicato il numero dei volontari. A parte i siciliani, c’era un contingente straniero composto per lo più di ungheresi e francesi, e a distanza di poche settimane l’una dall’altra arrivavano per mare dal nord altre spedizioni. Un corrispondente di giornale straniero giudicò che in breve si era giunti a diecimila soldati di prim’ordine, la cui disciplina e assuefazione al combattimento miglioravano ogni giorno, capaci di marciare per cinquanta chilometri al giorno con poco cibo. Un esercito così raccogliticcio conteneva per forza alcuni elementi indegni; ma il comandante inglese Forbes lo stimava assai superiore alla media: “Per sobrietà e buona condotta generale, questa formazione indisciplinata superava di gran lunga qualsiasi truppa regolare”.
Garibaldi fucilava senza pietà la gente anche soltanto se rubava uva, con la stessa facilità con cui li fucilava per diserzione alla presenza del nemico.
Anche in fatto di vestiario continuava a esserci la più grande varietà; alcuni ufficiali non permettevano la camicia rossa, sostenendo a ragione che era un buon bersaglio e che rivelava la loro consistenza. L’eccentrica contessa Della Torre era arrivata in stivali e speroni, con tunica bianca intrecciata alla ussara e in più un cappello spagnolo piumato e una spada che cigolava sinistramente al cammino. C’era abbondanza di opera buffa; Dumas, dal canto suo, ci si sfrenò dando il suo contributo. Mentre lui seguiva eccitatissimo gli eventi per conto di un giornale parigino, il suo lussuoso panfilo, ben fornito di champagne e adorno di un’altra dama esotica che si divertiva a indossare l’uniforme di ammiraglio, serviva da fabbrica di camicie rosse.
Nella prima fase Garibaldi aveva profittato largamente dell’aiuto dei contadini siciliani, insorti in vendette primitive e spesso atroci contro i proprietari terrieri e il governo borbonico. Più avanti nell’estate quegli stessi contadini, via via che la loro vita tornava naturalmente al normale corso, prosaico e pedestre, intuivano con tristezza e desolazione che dopo tutto Garibaldi non era un riformatore sociale con una soluzione magica per la loro eterna fame e miseria. Al contrario, lo troviamo perfino a reprimere nelle tenute di Nelson a Bronte un movimento “comunistico” che impediva il progresso militare. I contadini non erano veramente interessati a una guerra politica, ma solo a una loro guerra sociale che tagliava la politica di traverso; nell’impadronirsi di terra e di bestiame erano però così violenti e turbolenti, che perfino i più reazionari fra i latifondisti giunsero a scorgere nella protezione del dittatore radicale e della sua rivoluzione l’unica speranza di legge e di ordine. Fu un’immensa benché accidentale vittoria per la causa dell’Italia unificata, in quanto dal punto di vista politico i latifondisti erano la classe più solida e coerente. La loro graduale e spesso riluttante eccitazione dell’insurrezione fu un evento decisivo nella storia italiana e contribuì a render possibile la successiva fase della sorprendente conquista.
La resa di Palermo aveva permesso a Garibaldi di occupare quasi tutta la Sicilia, eccetto Messina e dintorni nell’angolo nord-orientale; gli serviva ora un’altra vittoria per consolidarsi e per assicurare un passaggio sicuro al continente.
Il 20 luglio entrò ancora una volta in contatto con il nemico. Avendo appreso che aspettava rinforzi, fece un rapido attacco sulla città fortificata di Milazzo con truppe meglio armate, che conoscevano il terreno. La battaglia ebbe sorti alterne per per otto ore e i garibaldini soffersero le peggiori perdite fino ad allora – ottocento fra moti e feriti, quattro volte di più degli avversari. Fu un duro prezzo da pagare per la loro leggenda di invincibilità; ma avevano una fiducia assoluta in chi li guidava, e questi in cambio li condusse al successo. Dumas venne a riva dopo la battaglia e trovò il suo eroe che dormiva esausto sul nudo pavimento di una chiesa, con la sella americana per cuscino.
Messina era una guarnigione troppo forte: le si dovette passare accanto. Il problema più urgente stava nel trasporto di più di diecimila uomini al di là dello stretto, sotto i cannoni dei forti e della marina nemici. Alcuni pensavano di costituire una testa di ponte a Salerno, ma dimenticavano che quasi non c’erano navi disponibili. Il gabinetto di Torino cercava di dissuaderlo da qualsiasi traversata, perché temeva complicazioni con la Francia e l’avvicinarsi della rivoluzione su per la penisola; ma il re, privatamente, li incoraggiava a tentare la fortuna e a esser pronti a vedersi ripudiare se le cose andavano storte. Era un momento confuso e delicato; l’unico a sentirsi affatto sicuro di sé era Garibaldi.
NOTA: I testi sono tratti dal libro “GARIBALDI” di Denis Mack Smith, pubblicato nel 1995 da Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. – Milano. Tutti i diritti sono riservati all’autore dell’opera.
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